La sua superiorità è evidente, soprattutto se si guarda alle 500 medaglie conquistate dall’Italia nella storia a cinque cerchi (il traguardo è stato tagliato grazie all’argento della squadra del tiro con l’arco): ebbene, un quinto circa del bottino è stato conquistato in pedana. Poi però, alla prima pedata a un pallone di un calciatore qualsiasi su un campo di gioco, questi magnifici ragazzi tornano nel limbo. Salvo poi, all’Olimpiade successiva, riaggrapparsi a loro per rimpinguare il bottino e, magari, salvare la patria. Hanno ragione a protestare (ma lo fanno sempre in modo civile, quasi rassegnato). Lo sport italiano e la comunicazione ad essa legato si basano ancora su un manuale Cencelli che sarebbe da buttare nel gabinetto, per approdare a un nuovo schema, usando coraggio e fantasia e applicando un principio semplice: chi vince e porta ritorni d’immagine, merita di più. Punto. Serve un salto culturale, occorre fare uno sforzo. Non è impossibile, basta averne la voglia, detto che il calcio, con i suoi miliardi e i suoi centri di potere, continuerà per il suo verso. Il punto non è fare la guerra al pallone, ma far emergere una base di discipline che è tenuta sotto traccia. Non solo. Nelle rare occasioni in cui mi è capitato di occuparmi di calcio, ho visto un noto calciatore di una non meno nota squadra rifiutare un’intervista televisiva perché aveva un taglio sul volto e non voleva apparire “sfregiato”; in un’altra circostanza, la riserva delle riserve di una formazione di vertice ha seminato il crocchio di giornalisti con la fatidica frase “no, oggi non parlo”. A Lignano Sabbiadoro, prima dei Giochi e durante una visita al raduno della nazionale di scherma, mi sono trovato a parlare senza problemi, procuratori, addetti stampa, filtri o quant’altro, con Valentina Vezzali e Aldo Montano. Due che hanno vinto l’Olimpiade. Dove sta l’errore?

Flavio Vanetti (corriere.it)

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